
Origine etimologica e arcaicità del sito.
Campanice significa letteralmente “campo seminato a panico”. Silvio Pieri, nella sua corposa opera di fine Ottocento “toponomastica delle valli del Serchio e della Lima”, ci spiega infatti (pag. 98) come in “cam(pu) panicae” la forma plurale assuma il significato di collettivo. Nell’area apuo‑garfagnina sono molte le località derivanti da tale coltura (Vico Pancellorum, Panicate, Panigale, Panicata, Pampanicala, Pianpanicale, Panappatreglio, Panicaglia), già praticata in età molto antiche. Nel castellaro di Zignago ad esempio ne sono emersi residui appartenenti al bronzo finale, insieme a vari tipi di grano, orzo, miglio, fave e piselli (“Il museo del Territorio dell’Alta valle Aulella”, pag. 40).
L’alpeggio in questione si trova lungo percorsi di transumanza estremamente antichi, quali il tracciato che, dalla mulattiera Costa-Giardino, si inerpica verso Vendiloni e Fordazzani dipartendosi dalla vetusta margineita di San Lunardo. Proprio lungo questa direttrice, attualmente coperta dai rovi, i coniugi Citton-Pastorelli hanno riportato alla luce un bellissimo masso-altare, ricoperto di petrogrammi e incisioni coppelliformi, riferito presumibilmente ad epoche protostoriche. L’intero percorso, oltre che presentare numerose incisioni rupestri, mantiene in alcuni toponimi il retaggio di culture ancestrali (Vendiloni, Fordazzani, Mattelonella, Betigna, Pian di Mela)
Tra storia e leggenda…
Terrinca disponeva degli sterminati alpeggi del retrocorchia da epoche immemorabili. Ricordava Italo Cocci, forse l’ultimo vero tramandatore orale della nostra terra, che «il popolo di Terrinca si era ritrovato a dover gestire questo enorme territorio, in un’epoca in cui i sentieri erano malagevoli e per raggiungere il capo opposto dei loro possedimenti occorrevano giorni di cammino.
Un tempo remoto, molti secoli fa, i terrinchesi decisero di utilizzare un’area lontana, ai margini della comunità, nota come “ravis lunga”: una zona ripida e franosa (il nome tra l’altro ha proprio tale significato) dove piantarono, per rinsaldare il terreno, selve di castagni, oggi giganteschi. Quando però la selve fu cresciuta e le castagne cadevamo a quintali, iniziarono a rubarle gli abitanti dei paesi vicini, compresi quelli dell’Isola Santa, dove era stato istallato un”hospitale” in cui, oltre ai pellegrini, circolavano anche persone poco dabbene.
Esse, approfittando del fatto che i nostri antenati erano molto distanti, depredavano quei boschi di ogni ricchezza. Si racconta che ci scappò anche un morto. Allora i terrinchesi si rivolsero ai governatori che comandavano queste terre, ma invano.
Questi dissidi ci riportano in pieno medioevo. La fondazione dell’ospedale di Isola Santa infatti, secondo la tradizione, viene attribuita a Matilde di Canossa, nell’XI secolo. Amedeo Guidugli ( “la Garfagnana del seicento, pag. 108), facendo riferimento ad una visita pastorale del 1621, così riporta: “lungo l’itinerario che, fin dal Medioevo, conduceva all’ospizio, transitavano i viandanti diretti verso il litorale tirrenico. Essi, attraverso il passo di Mosceta, proseguivano il cammino fino a raggiungere il mare. Lungo questo percorso l’ospedale si rendeva particolarmente utile e la sua funzionalità è documentata nel corso dei secoli”. Scopriamo poi, a conclusione della visita, che molti abitanti si rivolgono al Visitatore lamentando i “molti danni che giornalmente li sono fatti (…) dalli habitatori delle Capanne (di Careggine) et perchè, per essere loro di habitatione molte miglia lontani da questi beni, non ci possano attendere. Però domandorno che ci fosse messo la scomunica a chi faceva danno siando questi beni dello Spidale”.
Dunque dobbiamo supporre che gli interessi delle comunità confinanti in quel settore vertessero anche in funzione della gestione dei vari “percorsi della fede”, che migliaia di pellegrini nel corso dell’anno intraprendevano per raggiungere la città santa, provenienti dalle più svariate regioni d’Europa. Scopriamo, forse in riferimento al medesimo tema, nel libro di Mariano Verdigi “Dagli, terre di frontiera” (pag. 114), relativamente ad un documento del 1284 (peraltro non identificato nell’Archivio di Stato di Lucca), che esistevano problemi di confine tra varie comunità, tra cui Terrinca, Levigliani e Sassi (nella fattispecie il confine era rappresentato dal Canal delle Verghe, confluente nel torrente Teverone e poi nella Turrite Secca non molto distante dalla Rave Lunga). Lontane eco dunque che, seppur con imprecisioni inevitabili dall’analisi della tradizione orale, ci raccontano di come i terrinchesi cercarono, nel corso dei secoli, di gestire al meglio l’enorme estensione di terre di cui disponevano.
Una riserva smisurata di legname.
La zona di Campanice, oltre che per i rigogliosi pascoli, era nota fin dall’antichità per le sue enormi foreste di faggio.
Lo sfruttamento delle medesime è documentato quantomeno a partire dal XVI secolo. Sui Commentarii del Santini (op.cit., vol. III, pag. 291), in riferimento a un documento del 3 luglio 1550, si parla di certi legnami da far carbone presi sulle. montagne di Terrinca per le Magone della valle del Vezza e di Cansoli.
Scopriamo a riguardo nel libro di Margherita Azzari (“Le ferriere preindustriali delle Apuane”, p. 27) che la Magona di Ruosina, fin dal lontano 1573, aveva ottenuto, grazie ad un Instrumento, di poter tagliare boschi nelle comunità di Terrinca e Levigliani, pagando un canone annuo di 25 scudi.
Appena dieci anni dopo però, a causa degli eccessivi consumi di combustibile e per il metodo sbagliato con cui si attuavano i tagli tale patrimonio boschivo appariva depauperato, tanto che se ne proibiva l’utilizzo da parte degli abitanti, per evitare ulteriori dissesti. Successivamente (pag. 35 e sgg.), verso la metà del XVIII secolo, scopriamo che tali faggete si trovavano anche nella zona tra Fociomboli ed il monte Freddone, in località “Campanice”.
Una ispezione ai tagli fatta in quel periodo aveva rivelato l’assoluta mancanza delle più elementari regole di selvicoltura e la negligenza dei tagliatori della Magona: « I tagli fatti nel Culaccio, nel Tavolino, nel Malancino, Piastraie e Campanice erano stati fatti per la massima parte a scamollo e a scapitozzo avendo lasciato dei faggi all’altezza di due o tre braccia diritti, non grossi nè nodosi per sola incuria, e voglia di fare sollecitamente del legname ( pratica assai dannosa) e per l’abbandono del legname e perchè cadendo questo dalle putredine dopo alcuni anni guasta e rompe i piccoli faggeti ivi nati ». L’ispettore generale Carlo Setticelli terminava la sua relazione così: « Ciò nonostante le macchie di faggio sono belle all’estremo e capaci di dare molto carbone, essendo quella del Freddone tutta in taglio di un’altezza considerabile… »
In seguito a tale denunzia, lo sfruttamento fu praticato con metodo più oculato e le faggete di Campanice rimasero uno dei principali serbatoi di combustibile, per le Magone della valle del Vezza, fino alla cessazione delle attività o alla loro trasformazione in laboratori di marmo, avvenuta nel corso del XIX secolo.
L’allestimento di carbonaie, nelle faggete dell’Alpe di Terrinca, è perdurato fino alla metà del XX secolo, anche se in modo sempre meno sistematico. Le tracce di tale pratica le possiamo tutt’oggi osservare nei soffici e circolari spazi che, a distanze regolari, si aprono lungo i sentieri, nei minuscoli e quasi invisibili pianori tra le rocce calcaree, vero paradiso per quei turisti che decidano di piantare una tenda o stendersi a fare un breve riposo.
Miniere…
Pochi sanno che, nei secoli scorsi, vari imprenditori tentarono di estrarre minerali e metalli nell’Alpe di Terrinca, non ultima proprio Campanice, dove il Campana (op.cit., vol. II, pag. 127), nella seconda metà del Settecento, indica una “vena di piombo, argento, oro, rame”. Ma andiamo per ordine.
Un tale capitano Escoviel, alla fine del Seicento, estraeva, tra gli altri metalli, “oro e rame dal territorio” (V Santini, “Commentari storici sulla Versilia Centrale”, vol. III, pag. 295). Chiarisce meglio l’ubicazione il Targioni Tozzetti “Relazioni di alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana”, 1773, pag. 194) allorche accennando alla malachite, o idro‑carbonato di rame, del monte Lievora (monte Freddone) dice: “ivi circa a cinquant’anni fa (fine seicento, primi settecento), da alcuni pastori erano stati trovati diversi nocchi minerali piccoli e mezzani, ed alcuni grossi persino quante un uovo, o poco più, di colore azzurro o verde o misti di verde e pochissimo azzurro, i quali furono considerati sì da desti pastori, che da altri, ai quali gli fecero vedere, per semplice materia da colori. Anzi è fama, che dopo il signor rettor di Terrinca (Lorenzo Giannelli), sua Eccellenza il sig. Senatore Marchese Carlo Ginori ne facesse ricercare, credendo potesse riuscire a proposito per colorire le sue porcellane.
I sigg. Suardi e Formisani coll’indizio di tali noccioli minerali, che riconobbero contenere la metà e più di rame del loro peso, e per le osservazioni fatte di certe tinture verdi… risolsero tentarne la scoperta. Questa fu principiata il 1° giugno 1752, ed a prima giunta trovarono fatta un’apertura larga circa a braccia tre e fonda circa a braccia quattro”.
Tale citazione la ritroviamo anche nei Commentari del Santini (op.cit., voi. III, pag. 300), che poi spiega in questo modo la presenza di tracce di scavo: “A schiarimento del fin qui riferito appare che, il Rettore, prete Lorenzo Giannelli, avesse tentato l’escavazione nel 1702, aprendo il cunicolo più alto, e che fu dismessa nell’anno di poi, attesa la di lui morte: che il Ginori, nel 1712, riprendesse l’operazione del parroco, e tentasse l’apertura di due altri cunicoli: che i sigg. Suardi di Lucca, colla direzione di Domenico Formisani, riassunta per un anno l’escavazione, l’abbandonassero, atteso l’esplosione dì una mina che turbò la loro impresa; ed il Targioni annuncia, avere avuto dal capitano Fortini un pezzo di malachita ritrovato nell’Alpi di Livigliami”. Anche il Campana (op.cit., vol. II, pag. 127), in riferimento forse alle medesime miniere, riferisce che “in monte Lievora, nell’Alpe di Terrinca, vi sono due vene di rame, argento e oro”.
L’intervento chiarificatore lo fornisce Sergio Mancini, nel suo recente studio (“Miniere in Versilia, storie e itinerari”, pag, 93), spiegando che tali cunicoli sono posti lungo “la parte sinistra del canale delle Fredde, sul versante est del Monte Freddone… Altre località con minerali di rame e ferro venivano indicate a Puntato, in Val Terreno verso Isola Santa”.
L’intera zona, come vediamo, era stata soggetta a scavi e saggi. Il Santini (op.cit., vol. III, pag. 303), riporta “filoni d’oro, argento e piombo in Betigna, rame in Puntato (lo stesso sopracitato), cava di ferro in Teveroni, marchesita nelle Verghe”, tutti siti accuratamente identificati nello studio del Mancini (op.cit., pag. 87 e sgg.), così come per le altre località citate dal Campana (op.cit., vol. II, pag. 127): “alla Buca del tedesco vena di piombo; non molto distante da detta Buca, in mezzo al fiume, vena di argento ripiena; alla Maderrata, vena d’argento e piombo; in Betigna sull’Alpi, vena d’argento e piombo; al Sasso Rosso, passata la Maderrata, circa un quarto di miglio, vena di rame”.
Tutti siti in seguito abbandonati per la scarsa produttività, ma che mantengono una valenza quantomeno paesaggistica e ad alta vocazione turistica, offrendo al visitatore una gamma enorme di minerali, quarzi e pietre variopinte. Non a caso tale peculiarità viene messa saggiamente in evidenza nello studio del Mancini, che offre inediti percorsi turistici e potrebbe in futuro riservare gradevoli risvolti .
… e cave.
Apprendiamo dal Santini (op.cit., vol. III, pag. 254) che nell’ottobre del 1766 un certo “prete Gio. Silicani di Pruno chiese di formare una cava di mischio nel comune di Terrinca, in luogo detto ai Viottorucci”. Non siamo in grado oggi di localizzare con precisione tale località sul territorio, scopriamo però, sempre sul Santini (op.cit., vol. III, pag. 255), che una breccia persichina era stata individuata nei “Pizzi del Malagino” e “tentata da D. Lorenzo Silicani, Rettore di Retignano, e da Gio. Magnani da Volegno, usata nel Paliotto dell’Altare della Madonna del Soccorso in San Lorenzo di Serravezza”. Queste risultano le uniche due testimonianze di attività estrattiva relativa al Settecento nel Territorio dell’Alpe di Terrinca.
La cosa diventa più interessante se ci spostiamo nella seconda metà del secolo successivo. Apprendiamo infatti sul libro di Fabrizio Federigi “Meraviglie Versiliesi dell’Ottocento” (pag. 84) che l’avvocato seravezzino Giuseppe Santini “si era recato verso il 1850 ad esplorare le ricchezze naturali sull’Alpe di Terrinca e nella valle di Arni”. Tanto le aveva trovate interessanti da intraprendere l’acquisto di notevoli quantità di territorio, soprattutto nella zona di Betigna e di Arni.
Nel 1865, in seguito agli accordi presi, lo stesso avvocato aprì una segheria a due telai proprio in Campanice, dalla quale le lastre scendevano a valle a soma d’asino. Egli, due anni dopo, stimò il marmo da estrarre in tale località, insieme a Gerbassoio, Rave Funga, Campo all’Orzo e La Torretta, in 898.823.068 palmi cubi, con un prodotto netto di 2.640.051.228 franchi (F. Federigi, op.cit., pag. 85‑91). Lo sfruttamento degli agri marmiferi, in quegli anni, sembrava rappresentare motivo di sviluppo per il futuro della montagna. In una relazione oggi conservata nell’Archivio della Società Henraux di Querceta (forse dello studioso Igino Cocchi e riferita intorno al 1862) si ricorda che, tra gli intenti della costruzione della nuova via d’Arni, vi era la “nascita di villaggi in Campanice e negli altri monti d’Arni con nuovi e potenti edifici” (F. Federigi, op.cit., pag. 95).
L’alpeggio fu interessato dagli acquisti di terreni da parte della Società d’Arni per la escavazione lavorazione e vendita dei marmi per tutto il quinquennio 1874-1878, come ricorda ancora il Federigi a pag. 101. In seguito a tali operazioni venne aperta la cava cosiddetta del Togno (dalla località omonima), nella parte del territorio di alpeggio posta non distante dal ponte dei Merletti. Da questa cava, a fine Ottocento, usciranno due delle sei monumentali colonne, in blocco unico, poste nella chiesa di Terrinca dopo la riedificazione nel 1897.
In realtà poi, nei decenni successivi, Campanice rimarrà ai margini dello sfruttamento degli agri marmiferi, per una serie di motivi che forse sarebbe fuori luogo andare ad analizzare in questa sede. Certamente questo ha contribuito a lasciare intatto il fascino e la bellezza di un territorio alpino e selvaggio che, dopo gli anni dell’abbandono, non sarebbe male recuperare, sia in chiave turistica che di gestione di un territorio veramente, e sottolineo veramente, ricco.