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LA DEPORTAZIONE DEGLI APUANI NEL SANNIO

Subito dopo la seconda guerra punica (220-201 a. C.) Roma, nell’ambito del suo disegno imperialistico che prevedeva la conquista dell’Egitto, della Siria e della Macedonia, reputò opportuno mettere ordine per prima cosa nel suo dominio interno.

Costituivano una spina nel fianco i Liguri-Apuani, sottogruppo degli originari Liguri che, come rileva il prof. Eugenio Lenzi in un suo recente studio, si estendevano dalla Catalogna alla Gallia Narborense, alle Alpi Marittime, all’attuale Liguria, a parte del Piemonte Cispadano, all’Emilia fino a Modena, alla Toscana.

Erano i Liguri Apuani una tribù di origine celtica, sostiene il Santini; ladri, insidiosi, fallaci e bugiardi, sostiene Tito Livio. La superficie del territorio da essi occupato si aggirava intorno ai 4200 Kmq. e comprendeva le attuali province di La Spezia, Massa, Lucca e Pistoia. Secondo Plinio la loro influenza si sarebbe estesa fino ad Arezzo.

A sud confinavano con gli Etruschi, ma la vicinanza con questi non fu delle più pacifiche se è vero che, sottomessi questi dai Romani ne1295 a. C., gli Apuani approfittarono della circostanza per riprendersi i territori da cui erano stati da essi estromessi.

Nel 264 a. C., conquistata definitivamente l’Etruria, i confini settentrionali di Roma andavano dalla foce del Magra e, correndo lungo quelli settentrionali degli Apuani, si spingevano ad oriente fino al Rubicone, a nord di Rimini.

Quando, dopo la vittoriosa conclusione della prima guerra punica (240 a. C.) Roma si rivolse a nord per completare l’unificazione geopolitica della penisola avvertì l’importanza strategica del territorio degli Apuani costituendo esso il passaggio obbligato per accedere alla Valle padana.

Il piano degli strateghi romani, infatti, prevedeva l’attacco ai Galli Boi mediante una conversione su di essi partendo dall’alto Adriatico e, dall’alto Tirreno. Gli Apuani però non mostravano alcuna intenzione di voler collaborare per cui Roma ritenne opportuno di intraprendere quella serie di guerre ligustiche che dal 239 si protrassero fino al 177 a. C.

L’inizio delle ostilità fu sfavorevole agli Apuani che vennero battuti nel 239 dal console Postumio Albinio e successivamente da Cornelio Lentulo, Furio Filo e Quinto Fabio Massimo, il futuro «temporeggiatore».

Andava intanto svolgendosi la seconda guerra punica e poiché fino al 191 a. C. non si hanno notizie di lotte tra Apuani e Romani si è pensato ad una specie di tregua tra di essi. Infatti, sostiene il Dinelli nella sua «Storia di Camaiore», da cui abbiamo tratto la maggior parte di quanto andiamo esponendo, se è vero che Cartagine trovò nei Liguri preziosi alleati e che Annibale, volendo, dopo la battaglia della Trebbia (218 a.C.), raggiungere l’Italia centrale, scelse la «via per ligures» per portarsi su Luni, è altrettanto vero che il console Sempronio per raggiungere Arezzo scelse la via della Val di Magra, dell’Aulella e del Serchio non certo senza il tacito consenso degli Apuani,

Sconfitto Annibale a Zama (202 a. C.) i Liguri apuani cominciarono a dar segni di insofferenza verso Roma la quale si mise subito in allarme in quanto il suo duplice obiettivo:

a) Aprirsi una strada sicura lungo la costa per assicurare le comunicazioni tra Pisa e Luni.

b) Assicurarsi il transito per la Lunigiana ove preoccupazioni suscitavano le ostilità dei Galli Boi e degli Insubri, non poteva realizzarsi finché gli Apuani avessero goduto della loro indipendenza.

Nel 195 a. C. il pretore P. Porcio.Leca venne stanziato con 15 mila fanti e 800 cavalieri a Pisa perché tenesse d’occhio i Liguri apuani dal versante di nord-ovest tra il Gabberi e Matanna.

Nel 193 gli Apuani cinsero d’assedio Pisa e quando andò loro incontro da Arezzo il console Q. Minuccio essi tolsero l’assedio e fingendo di ritirarsi attirarono in una trappola mortale il romano. La guerra si protrasse per sei anni nel corso dei quali gli Apuani subirono cocenti rovesci in conseguenza dei quali essi dovettero diminuire vieppiù la loro attività bellica. Di ciò approfittarono i Romani per riorganizzarsi.

Nel 187 Roma riprese l’ostilità per cui «due forti eserciti muovendo simultaneamente dal versante padano e da quello tirrenico, assalirono gli Apuani e i loro alleati Friniati. Il primo esercito, al comando del console C. Flaminio, avanzando da Modena combatté e sconfisse i Frinisti e traversando l’Appennino si portò in Lunigiana; l’altro, alla cui testa era il console M. Emilio Lepido, prendendo le mosse da Pisa, devastò i campi degli Apuani e dopo averli costretti a battaglia li sconfisse».

Poiché gli Apuani non si arrendevano, nel 186 il Senato romano, persuaso dal tribuno Sernpronio Bleso, schierò 15 mila uomini al comando di Q. Marcio Filippo e Spurio Postumio. Gli Apuani riuscirono allora ad attirare in una imboscata Q. Minuccio il quale perse così quattromila uomini, tre bandiere ed 11 vessilli. Il luogo della battaglia prese il nome di «saltus Marcii» che taluni identificarono con Marcìone, presso Pieve Fosciana, ed altri con Marciaso, nel Sarzanese.

Nel 185 uscì da Pisa M. Sempronio Tuditano il quale «devastando i campi, bruciando i borghi ed i castelli degli Apuani si apri il varco fino a Luni e alla Magra. Gli Apuani si rifugiarono sulle alture più impervie dei loro monti ma Sempronio, superate le difficoltà dei luoghi, li costrinse a battaglia».

Nel 180 i proconsoli P. Cornelio e Marco Bebio Tanfilo con 15 mila fanti e 800 cavalieri attaccarono di sorpresa gli Apuani i quali «furono costretti ad arrendersi in numero di 12 mila. Cornelio e Bebio, dopo aver chiesto il parere del Senato, decisero di deportarli in aperta campagna lontano dai loro monti, affinché non potessero più farvi ritorno; ritenevano, infatti, che oltre questo non si sarebbe potuto mettere in atto altro espediente per porre fine alla guerra contro gli Apuani» (T. Livio, Ab Urbe condita XL, 58).

Nel paese dei Sanniti (il Sannio era stato conquistato dai romani dopo 53 anni di lotta, dal 343 al 290 a. C.) vi erano, continua Livio, dei territori di proprietà del popolo romano che prima erano stati dei Taurasini (ai quali erano stati tolti nel 296). Volendo deportare in essi gli Apuani, i consoli ordinarono che questi scendessero dai monti con la prole, le mogli, e le loro masserizie. Gli Apuani inviarono loro ambascerie per scongiurarli a non costringerli ad abbandonare le loro case, il paese in cui erano nati, i loro pennati ripromettevano di consegnare armi ed ostaggi: ma sempre invano; ed allora non avendo la forza di riprendere le armi dovettero rassegnarsi ed ubbidire.

Furono deportati a spese del Senato 40 mila uomini liberi con le mogli e i figli. Ricevettero ognuno una somma di 150 mila” denari d’argento che doveva servire per procurarsi il necessario nei nuovi luoghi di residenza. Gli stessi Cornelio e Bebio, che avevano ordinato la loro trasmigrazione, ebbero l’incarico di dividere ed assegnare i terreni, ma, dietro loro richiesta, il Senato nominò una commissione di 5 esperti che dessero loro consigli.

NeI 177 Q. Fulvio Flacco sconfisse nei pressi del fiume Pultenna (l’attuale Panaro, nella pianura romagnola) i superstiti Apuani e i Friniati. 15 mila uomini rimasero sul terreno.

Dice T. Livio: «Fulvio, con la seconda e quarta legione, attaccò partendo da Pisa, gliApuani e li costrinse alla resa. Imbarcò circa 7 mila di essi e li mandò a Napoli oltre la costa del mare Etrusco. Di li poi furono deportati nel Sannio e furono assegnati loro dei terreni tra i loro connazionali. Aulo Postumio, che insieme a C. Calpurnio con laprima e la terza legione aveva assediato ed espugnato Balista e Suimontium, tagliò le vigne e bruciò il frumento dei Liguri apuani.fino a che costretti dai calamitosi eventi i restanti Apuani dovettero arrendersi e consegnare le.armi». Ad onor del vero lo spopolamento cosi predisposto non dovette essere assoluto dal momento che da studi antropometrici condotti dopo l’unità d’Italia e consegnati al reclutamento nel rinnovato esercito italiano risultò che i coscritti delle zone che erano state dei Liguri apuani avevano caratteri antropologici uguali a quelli del Sannio e ciò a migliaia d’anni di distanza. Tali dati hanno potuto verificarli quanti erano presenti alla visita effettuata di recente dai Sanniti in VersiIia: alcune persone, sia versiliesi che sanniti, infatti, si somigliavano come due gocce d’acqua.

Ma quali furono, per ritornare in argomento, le località in cui i nostri antichi progenitori furono deportati? A tal proposito il prof. Lenzi, da noi interpellato, ci ha detto che assai discorde è l’opinione dei vari ricercatori del secolo passato (Guarini, Dalla Vecchia, Garrucci, Meomartini, De Agostini) sulle precise località del Sannio ove gli Apuani vennero trasferiti.

Poiché T. Livio narra che il Senato decise di deportarli nei campi pubblici che erano sfati dei Taurasini o Tauraini, alcuni storici, come il Dalla Vecchia, ritengono di poter identificare questi luoghi con le campagne di Taurasi o dell’antica Eca dalle cui rovine avrebbe avuto origine S. Angelo dei Lombardi. Il Meomartini ritiene debba leggersi non «taurasini» ma «taurini» o «tauranini» dal nome dei progenitori dell’attuale Reino, paese identificabile con quel pago ligustino al confine con la «Res Publica Ligurum Baebianorum» di cui parla la tabula alimentaria attualmente conservata nel Museo delle Terme di Roma.

Tale tabula, ritrovata nel secolo scorso in località Macchia, comune di Circello, sulla sinistra del fiume Tammaro, in provincia di Benevento, è di tale importanza da far ritenere che se una parte degli Apuani fu trasportata nei campi taurasini un altro gruppo, più precisamente quello dei Baebiani, abbia trovato sede nella ricordata Macchia e zone circostanti.

La tabula in questione, rileva sempre Lenzi, ci ha fatto tra l’altro conoscere che, dopo tre secoli dal forzato trasloco, gli Apuani conservano ancora il loro nome, le loro istituzioni e si reggevano a repubblica autonoma. Purtroppo caddero preda dei Saraceni che dal 728 all’863, muovendo dall’emirato di Bari, misero a ferro e fuoco ogni cosa intorno a Benevento, Sepino, Boiano e Isernia in particolare durante l’emirato di Seodano.

PIETRO VITI
da “il Dialogo” – Luglio-Agosto 1981 – pp. 12-13

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